CAPITOLO III

LA POETICA DI GIOVANNI PASCOLI

La critica ha generalmente evitato il problema del decadentismo pascoliano, ed ha raramente per il Pascoli adoperato la parola «sensualità» in senso estetico (amore sensuale delle parole), al contrario di quanto ha fatto per il D’Annunzio. Solo il Petrini, in uno studio rimasto interrotto[1], si andava occupando della poesia pascoliana in questa direzione, mentre il Galletti, nel suo volume caotico e dispersivo, accentuava nel Pascoli un misticismo romantico appoggiato su poco precisi confronti.

Pare che quella certa bonarietà romagnola del Pascoli lo abbia fatto sentire troppo nostrano perché la critica andasse oltre il confronto con poeti stranieri e cercasse i segni della nuova poesia europea radicalmente nella sua poetica. E veramente il Pascoli rappresenta un decadentismo indigeno, le cui filiazioni piú patenti furono eccessivamente borghesi e provinciali. Mentre il D’Annunzio appariva un maestro non solo di poesia, ma di vita raffinata, di esotismo, di preziose iniziazioni, e provocava una corrente di estetismo, che parve all’Italia desiderosa di europeizzarsi il non plus ultra della modernità e della raffinatezza, il Pascoli, con il suo Castelvecchio, le sue cattedre di latino, e «tutte quelle gabbie di canarini alle finestre» che furono i pascoliani imitatori e ammiratori, rimase solo il figlio di Virgilio, il delicato cantore della campagna. Non fu sentito come decadente, ma come campagnolo. Nessuno si preoccupò di cercare nelle letterature straniere le fonti delle sue poesie, se non tardi; lo si sentí staccato dal nuovo movimento poetico e semmai piú vicino, con una diversa sensibilità, alla poesia del Carducci[2].

In verità si sentiva giustamente che il Pascoli non doveva i suoi particolari accenti a dei modelli stranieri, come invece li doveva, sia pure entro i limiti che noi concediamo alle famose «influenze», il D’Annunzio. E certo anche noi sentiamo come sia inutile pensare ad influenze da parte di Poe o di altri stranieri sul Pascoli[3].

Basti ricordare come la traduzione che il Pascoli fece da giovane del Corvo di Poe sia lontana dallo spirito dell’originale, e come non se ne ritrovi la traccia nella sua opera. Quando parleremo, per limitare ed individuare il particolare decadentismo pascoliano, del senso del mistero, vedremo quanto il Nostro disti da Poe e da Maeterlinck, ma già adesso possiamo notare che, per ben comprendere il Pascoli, bisogna staccarlo dall’Europa come cultura, e riattaccarlo alla nuova poesia proprio nuclearmente, per la sua speciale, e del tutto indigena, sensibilità decadente.

I confronti con gli europei pongono il Pascoli sul loro piano come novità, ma ne lo distaccano come coscienza di certi motivi essenziali, di quel mondo iniziatico, cui si può dire che egli acceda per pura sensibilità, senza una vera intellettualità che approfondisca e risolva le relazioni vita-arte e la comune origine dal mistero.

Certo il D’Annunzio è, in confronto, di una raffinatezza piú vistosa, come la sua vita è di decadente lussuoso, mentre quella del Pascoli ha costruito su di un ritmo borghese la sua speciale distinzione. Ad ogni modo, per una comprensione esauriente del nostro decadentismo, il Pascoli non è meno necessario del D’Annunzio, e il suo maggiore provincialismo rende piú consistente la sua rivoluzione silenziosa contro le vecchie poetiche.

***

Per procedere alla determinazione della poetica pascoliana, partiremo da una costatazione che vale anche per il D’Annunzio: l’esagerata ricchezza di vocabolario in questi due poeti. Vocaboli smisuratamente piú abbondanti di quello leopardiano o manzoniano. Questa sovrabbondanza di vocaboli è un indice prezioso per la ricostruzione centrale delle due poetiche e per la loro accentuazione decadente. La parola, come prelibata unità espressiva, nelle sue possibilità di esaurire analiticamente il reale in ogni sua sfumatura, campeggia, con diverso limite estetico, in entrambe. Di rado poi una parola basta al D’Annunzio come al Pascoli per soddisfare la loro emozione, anche nei momenti piú concentrati.

Spesso avviene al Pascoli ciò che gli avviene in questa frase della prefazione ai Canti di Castelvecchio: «... canti d’uccelli, anche questi: di pettirossi, di capinere, di cardellini, di allodole, di rosignoli, di cuculi, di assiuoli, di fringuelli, di passeri, di forasiepe, di tortori, di cincie, di verlette, di saltimpali, di rondini e rondini e rondini che tornano e che vanno e che restano». Non sente la sazietà dei nomi e dei sinonimi, ma ha bisogno anzi di puntualizzare la sua illuminazione nel maggior numero possibile di parole. Nel D’Annunzio la ricerca del vocabolo è pura ricerca di musica verbale e sensuale, nel Pascoli deriva soprattutto dal suo naturale gusto delle minime cose nei minimi loro particolari.

Cura decadente, che confina col desiderio del raro, della parola poco nota, del dialettalismo, e che egli giustifica come precisione espressiva e immediatezza. Per questa cura del vocabolo (dialettalismo nei poemetti georgici, grecismi, archeologismi nei Poemi conviviali, nei Poemi italici) la sua poetica rientra agevolmente in quel cerchio di estetismo che lo accomuna a Gabriele e ad Adolfo, e che costituisce il primo vero focolaio culturale di decadentismo italiano. Anzi, nell’ambiente degli estetizzanti della fine del secolo, la sua è la prima espressa teorizzazione del gusto nuovo, la prima poetica direttamente ribelle (anche se con limitata coscienza) alla poetica classica.

L’importanza che quindi acquista per noi la prosa del Fanciullino supera l’esperienza personale del Pascoli, ed ha un profondo significato per la valutazione del nuovo clima decadente. Bisogna anzitutto insistere sull’importanza che ha una poetica esplicita, una descrizione volontaria dei modi seguiti e dei modi programmatici ideati per la costruzione di un mondo poetico: vedremo infatti come nello stesso Pascoli la teorizzazione abbia influito, appunto perché chiarificazione e cristallizzazione, sulla sua attività posteriore.

Finché è pura sensibilità, una poetica in atto pesa meno sull’artista e sul momento creativo, ma quando se ne trova la concretizzazione teorica, la definizione chiara, la poetica assume allora quasi un valore di dogma e di incubo, grava sulla ingenuità dell’artista e dei suoi affini.

La poetica del Fanciullino è insieme esperienza artistica vissuta, e quindi codificazione di indirizzi euristici già attuati concretamente, e programma ideale che il Pascoli si propone per la poesia a venire, e quindi poetica nel suo senso di dettami che egli dà a se stesso, e che darebbe ai suoi possibili discepoli: dettami che d’altra parte derivano essenzialmente da quella sua precedente esperienza. A noi interessa anzitutto porre le relazioni che corrono fra il Pascoli e la tradizione italiana cui egli accenna nel Fanciullino: ci addentriamo cosí nella sua concezione monotona ed originale della poesia attraverso la sua critica personale alla tradizione, cui si ribella e in cui si inserisce.

Nel paragrafo VII critica appunto la letteratura italiana proprio per il difetto opposto a quelli di cui veniva di solito accusata (difetto d’umanità), cioè per la scarsezza di poesia pura di fronte all’abbondanza di poesia applicata. L’accusa cosí è modernissima e personale, in quanto che la poesia pura, per il Pascoli, è in sostanza l’immediatezza fanciullesca del particolare. Manca la letteratura italiana della poeticità delle cose (dice il Pascoli), perché preferí a questa l’imitazione, la furberia letterata. Ha peccato di prosa e di astrattezza, di aulicità sospesa nel vuoto. Letteratura che si isola in un regno di segni convenzionali, nel giro di frasi generiche: «S’ha sempre a dire uccelli, sí di quelli che fanno tottaví, e sí di quelli che fanno crocrò?».

Ed è coerentemente a questa critica radicale, che egli esamina nei due saggi leopardiani (il Sabato, la Ginestra) la poesia del grande recanatese. Poeta nuovo lo chiama, ma trova che in lui «l’errore dell’indeterminatezza si alterna con l’altro del falso»: «tutti alberi, tutti uccelli, oppure tutti gli alberi faggi, tutti i fiori rose e viole (anzi rose e viole insieme, unite spesso piú nella dolcezza del loro suono che nella soavità del loro profumo)». Il Leopardi, per lui, «non colse quel particolare nel quale è, per cosí dire, come in una cellula speciale, l’esplosione poetica delle cose»[4]. Osserviamo anzitutto che non senza significato la critica del Pascoli viene a coincidere, nel risultato, con quella dei positivisti antropologi dello stesso periodo: il Sergi chiamava questa supposta incapacità del Leopardi a cogliere il particolare netto, a distinguere i generi dalle specie, «ambliopia mentale».

Questa incomprensione assoluta della poesia leopardiana[5] è in diretta funzione dell’ideale poetico e della natura pascoliana, che negli altri saggi si manifesta anche piú direttamente: «Vedere e udire: altro non deve il poeta». «La poesia è nelle cose, un certo etere che si trova in questa piú, in quella meno, in alcune sí, in altre no». Frasi che toccano il centro della sua concezione artistica ed illuminano il suo particolare decadentismo.

Perché scambia per indeterminatezza l’eternità sintetica delle espressioni leopardiane: gli occhi «ridenti e fuggitivi» di Silvia, «il mazzolin di rose e di viole» del Sabato del villaggio? Appunto perché il suo ideale di poesia non è l’evidenza di una espressione definitiva e sintetica, quanto la suggestione del particolare piú minuto ed esauriente. «La poesia consiste nella visione d’un particolare inavvertito fuori e dentro noi». La poesia diventa, in certo senso, una valorizzazione della realtà fisica e psichica nella sua costituzione piú anfrattuosa, e insieme quindi una esplorazione nel patrimonio linguistico corrispondente.

Si può vedere cosí come il Pascoli fosse lontano dalla grande tradizione italiana petrarchesca e altamente letteraria, nobile e intessuta di rappresentazioni sub specie aeternitatis. In questo senso la ribellione dei moderni, ricercanti la concretezza e l’immediatezza della vita nella poesia, e d’altra parte miranti a spezzare il cerchio aulico della letteratura per dar poesia alle cose umili, è completamente espressa nel Fanciullino: «Qualunque soggetto può essere contemplato dagli occhi profondi del fanciullo interiore, qualunque tenue cosa può in quelli occhi parere grandissima».

Il giudizio sul Leopardi corrisponde, quanto ad incomprensione, a quello positivo ed entusiastico di Omero e degli aedi primitivi, che si trasmutano in niente altro che nelle stesse intenzioni poetiche pascoliane: tra il Leopardi e la letteratura italiana, negati in nome della precisione e del particolare, ed Omero, accettato per l’ingenuità, la meraviglia di fronte alle cose, vibra la poetica pascoliana e prende colore il suo speciale ed indigeno decadentismo.

La poetica del Fanciullino si fonda cosí positivamente sul mito personale del poeta primitivo, omerico, che altri non è se non un Pascoli che si ritrova antistoricamente nella poesia epica greca e medievale delle origini. «Parlava a lungo (il preteso poeta omerico), con foga, dicendo i particolari l’uno dopo l’altro e non tralasciandone uno, nemmeno, per esempio, che le schiappe da bruciare erano senza foglie». Travestimento omerico che ritroveremo, come influenza negativa della poetica intenzionale sulla natura del poeta, nella costruzione dei Poemi conviviali.

Al poeta omerico attribuisce anche le sue qualità psicologiche, le sue preferenze; e lo eguaglia al fanciullino senz’altro. Cosa ha portato la civiltà? Ha complicato l’involucro del fanciullino. «Fanciullino» che non ha un’umanità completa, ma l’umanità appunto dei fanciulli, priva, ad esempio, di interessi erotici. Cosí quella certa frigidità pascoliana passa nel fanciullino e, piú rischiosamente, nel poeta primitivo:

«Non sono gli amori, non sono le donne, per belle e dee che siano, che premano ai fanciulli, sí le aste bronzee e i carri da guerra, e i lunghi viaggi e le lunghe traversie»: proprio gli argomenti dei due poemi omerici.

Ed è talmente estremo nell’aderenza di poeta, poeta omerico e fanciullino, che condanna l’interesse dei moderni per le donne (la ginecolatria che condannavano, a modo loro, anche i futuristi) come impoetico: «Ciò accrebbe l’interesse drammatico del ciclo, ma segnò in esso la diminuzione di essenza poetica. Cosí Orlando innamorato e furioso per amore è piú drammatico, ma meno poetico di Rolando della canzone».

Da questo accenno si vede come le accuse del Croce al «fanciullino» pascoliano siano giustificate, e come quelle che erano nel Pascoli qualità naturali ed implicite, di psicologia, si erigessero poi a norme estetiche pericolose per la produzione futura: infatti, in quanto erano qualità naturali rientravano comodamente nel mondo espressivo del poeta, mentre, divenute esplicite e normative, vennero a funzionare da limite censorio su ogni possibile ispirazione ventura. Il candore, le dolciastre ingenuità di Fior d’Ulivo e di Re Enzio, son frutto, oltre che della frigidità pascoliana, della coscienza dell’impoeticità erotica.

Il decadentismo del Pascoli e la sua modernità nella nostra tradizione consistono dunque nel principio centrale della sua poetica, che è irrigidimento schematico della sua sensibilità: ingrandire il piccolo, impiccolire il grande: «Impiccolisce, il fanciullino, per poter vedere, ingrandisce per potere ammirare». Cosa di piú tipicamente decadente, anticlassico?

A parte quel che di leziosamente borghese («il piccolo grande presepe»), la proposizione centrale della poetica del fanciullino si inquadra benissimo nell’atmosfera degli estetizzanti italiani. Ché è del peggiore estetismo, ad esempio, l’osservazione fatta dal Pascoli a proposito della sua poetica, circa il gesto spontaneo e commovente d’una bimba: «Rivado col pensiero a tutte le poesie che ho lette; non ne trovo una piú poesia di questa».

Cosí la famosa poesia pura, mentre è sceverata accuratamente da quella applicata, dal racconto, dal dramma, si degrada a «poeticità» delle cose piú che a risultato artistico. Infatti il poeta precisa: «Tu scopri, s’è detto, non inventi; e ciò che scopri, c’era prima di te, e ci sarà senza di te», cioè il poetico esiste da sé, come l’oro nelle miniere, e il poeta non fa che scavarlo e presentarcelo. Proposizione che, unita a quest’altra: «A costituire il poeta vale infinitamente piú il suo sentimento e la sua visione che il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altro», fa pensare ad una posizione assai vicina a quella dell’abbé Bremond.

In questo punto veramente si trova un sostanziale misticismo oggettivistico, un misticismo che rende il fanciullo, cioè il poeta, scopritore della vera realtà di per sé stante. Non l’artefice carducciano, il niellatore parnassiano e neppure il profeta rimbaudiano o mallarmeano, misticamente piú puro ed idealistico, ma lo scopritore della poeticità insita nelle cose, nella natura. Poeticità però che egli può accrescere in maniera teoricamente enigmatica, ma sentimentalmente comprensibile: ridiventando natura e quindi egli stesso poeticità: «Il poeta non deve avere, non ha, altro fine... che quello di riconfondersi nella natura donde uscí, lasciando in essa un accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno, suo». L’apporto personale viene cosí rispettato, anche se ci si possa domandare come si distinguerà quel «suo» poetico, che gli deriva tutto dalla scoperta d’una poeticità già bella e preparata. Sappiamo ad ogni modo che il fanciullo-poeta ha la chiave delle cose poetiche e che l’uomo non fanciullo non sa vedere.

Raramente però il Pascoli va oltre, e non arriva mai a far della poesia l’unico metodo di conoscenza del reale, come fanno i decadenti puri. Sí, dice che il fanciullo non sa «ragionare se non a modo suo, un modo fanciullesco che si chiama profondo perché d’un tratto, senza farci scendere a uno a uno i gradini del pensiero, ci trasporta nell’abisso della verità»; ma quest’affermazione è limitata dalla sua fede nella scienza.

Sappiamo anche che il poetico è nelle cose («Poesia è trovare nelle cose, come s’ha a dire?, il loro sorriso e la loro lacrima») e che in tutte è possibile trovarlo; e l’impoetico? Esiste esso pure, ma è nella nostra coscienza: «Ora si trova a mano a mano che impoetico è ciò che la morale riconosce cattivo e ciò che l’estetica proclama brutto». E dopo: «la pazzia sta appunto in questo, di pensar da buoni e cantar da cattivi». È un moralismo estetico o un’estetica moralistica? C’è l’uno e l’altro, come nella coscienza tra borghese ed estetizzante del Pascoli, e come nella sua soluzione del fine della poesia.

Infatti, da moderno, egli distingue il fine della poesia da quello della morale, e afferma piú volte recisamente che la poesia deve essere solamente poesia, ma poi, concludendo che «il poeta è ispiratore di costumi solo indirettamente, non volendolo», ricostruisce a posteriori il processo interno del poeta e, sapendo che poesia non può non portare bene morale, è tratto inevitabilmente ad immettere già nella creazione un desiderio almeno che la sua poesia sia utile alla società, ad inficiare insomma la purezza della poesia con fini umanitari.

Cosí nell’Era nuova teorizza il nuovo mito della bontà: «il poeta aggiunge: io non potrei cantare con vera, profonda, sopraumana ispirazione, se non la bontà, se non l’integrazione del genere umano, se non l’ammansamento vero e perpetuo dei miei fratelli semiferi». Mentre pareva puro di ogni mescolanza extrartistica, si trova poi ad esigere come norma di modernità e di poesia una aspirazione umanitaria.

E il famoso senso del mistero, dell’ignoto, della morte non è anch’esso riattaccato a questa esigenza moralistica? Il poeta asserisce che l’artista deve dare la sensazione, con la sua profonda stupefazione, della morte, e si lagna che non la dia «perché... se avesse pervaso il nostro essere cosciente, noi saremmo piú buoni».

Il miraggio della bontà e dell’utilità della poesia cambia molto il valore delle affermazioni di misticismo moderno che servono piú a saldare il Pascoli con i decadenti stranieri.

Una volta di piú si trova che la modernità e il decadentismo del Pascoli sono fortemente limitati, come son limitate le sue affermazioni in campo teorico: poesia e non poesia, inutilità delle classificazioni, contemporaneità della poesia, vicine piú nella lettera che nello spirito alle affermazioni crociane.

***

Vista l’importanza capitale del Fanciullino come indice d’un clima decadente italiano, e come centro della poetica pascoliana, vediamo in concreto come questa si formi nell’esperienza e nella sensibilità naturale del Pascoli, e come, coerentemente ad un raffinamento e a un prevalere di interessi extrartistici, influenzi e diriga la creazione della poesia della maturità.

Bisogna notare anzitutto che il passaggio, l’ampliamento e la deformazione del puro gusto di Myricae e dei Canti di Castelvecchio fino ad Odi ed Inni, è lentissimo, poco avvertibile in un momento solo, perché è propria del Pascoli una grande monotonia spirituale, dovuta alle sue scarse capacità intellettuali, in senso profondo. Si può dire che egli non ha crisi e che la sua poesia è però un ritorno su pochi motivi, quasi su se stessa, un raffinamento fino al languore e al prevalere dei motivi piú fiacchi, che sono poi i suoi ideali. Perché se si vuol vedere il mondo morale del Pascoli, ci si trovano degli ideali vaghi, generici, di ottocento ingenuo. Quanta diversità corre fra il suo morbido pessimismo e quello vitale del Leopardi, tanta ce n’è fra la totale affermazione della Ginestra e l’umanitarismo femminile del Carcere di Ginevra, del Negro di Saint-Pierre.

Questa mancanza di certezza fa che il sustrato della sua arte sia pura psicologia, tanto piú dove espande i suoi pretesi ideali umanitari: lí tanto piú il suo sentimento si fa sentimentalismo. Cosí che «per quanto sottile o solenne, la sua spiritualità è primitiva ed incapace di dar forma artistica ai sentimenti e ai pensieri che sono il frutto dell’evoluzione secolare dell’umanità»[6]. A questa mancanza di spiritualità in profondo, e di intellettualità che vada oltre la posizione di problemi generici, corrisponde positivamente un senso di ingenuità e di natività, che è appunto il nocciolo apprezzabile della sensibilità pascoliana.

È quello che dal Serra e dal Cecchi, sulle orme del Serra, fu sentito come «gusto delle cose». «La poesia del Pascoli consiste in qualche cosa che è fuori della letteratura, fuori dei versi presi uno a uno; essa è di cose, è nel cuore stesso delle cose»[7]. Senso delle cose vuol dire immediatezza, poesia duratura senza impalcature retoriche, senza veli letterari. Non si può fare quindi una valutazione piú positiva ed esauriente della sensibilità pascoliana: senso delle cose è anche modernità, poesia della sensazione, ed ha insieme carattere paesano, italiano, di solidità e di realismo.

La formula, che cela nel Serra e in noi tutti un diffuso senso della poesia pascoliana come di una realtà vivente e fisionomica, limita e precisa il decadentismo pascoliano, specialmente quando se ne derivi, come Serra non fece, la poetica del Fanciullino, e in quella deformazione si veda la possibilità della poesia posteriore. La sua sensibilità porta il poeta nelle cose, all’analisi delle sensazioni piú minute e al godimento, direi, di se stessa.

Infatti non bisogna pensare a un senso plastico delle cose, ma quasi ad un profumo, alla loro evidenza piú immediata e meno corposa. Il Pascoli, senza arrivare all’aristocratica evidenza di Mallarmé («je dis une fleur...»), cerca l’anima delle cose, il profumo che ne emana, e ne gode come il fanciullino della leggerezza con cui corrono le sue barchette.

Un’altra frase del critico romagnolo è illuminante: «Cose poetiche dello stesso ordine sono le sensazioni, e accanto allo sterpazzolino e alla vigna abbandonata, si trova l’infinito, e il canto notturno della domenica». La definizione diventa cosí comprensiva e capace: permette anzitutto di svalutare il famoso senso del mistero al senso delle cose e alla stupefazione che il fanciullino prova sempre nell’esprimerle. Il mistero è anch’esso una sensazione, una cosa, che come tale viene espressa, e, se è intenzione, pretesto umanitario, resta enunciato, diversamente da quello che può avvenire nell’allibimento di Poe o nella pratica del mistero di Maeterlinck.

In concreto il gusto delle cose, che caratterizza la sensibilità nuda del Pascoli, contiene la possibilità di una poetica decadente, di una poesia sfatta, assurdamente minuta. Il senso delle cose, quando si incentra in una poetica come quella del fanciullino, degenera nell’infantilismo, nell’ammirazione indistinta di tutti e di tutto. Inoltre, dall’attenzione minuta alle cose si passa facilmente alla preziosità delle parole, che quelle cose esprimono per se stesse; e d’altra parte, per adeguare quella meraviglia che il fanciullino-poeta prova di fronte alle cose, si ha spesso una fuga di parole solamente intonate a quella meraviglia, che gode di se stessa, che si fa sonorità facile, cantilena (Ciaramelle, L’Ora di Barga).

È al desiderio del particolare, di rendere ogni cosa col suo nome (ricordare le idee dell’Idioma gentile deamicisiano), insieme al bisogno di rendere le cose nel loro processo, nella loro effettualità, che si devono le famigerate onomatopee e quelle stravaganze ritmiche che furono prese per ragioni puramente musicali.

Anche se è vero quello che il Mazzoni racconta in Poeti giovani, che il Pascoli aveva in testa fin negli esordi l’idea di un poema fatto di parole in quanto suono, si deve negare nel Pascoli una ricerca di pura musica e di puro simbolismo. Egli trova il suo lirismo e la musica della sua poesia cercando le cose e le loro sfumature, non facendo della musica la sua metà immediata ed essenziale. È notevole che anche il D’Annunzio abbia sentito la poesia del Pascoli proprio nel senso delle cose e nella mancanza del mistero: «Egli mostra di non dare molta importanza, nella composizione della sua strofa, all’elemento musicale delle parole, che sceglie con grandissima cura. Nelle sue poesie rare volte si sente l’indefinito. Il fantasma poetico non sorge dalla melodia e non ne riceve quasi mai significazioni notevoli. La maggiore importanza invece è data da lui all’elemento plastico. Egli ha delle cose una visione chiara e precisa... Ma il di là dal paesaggio e dalla figura, la vista interiore non percepisce null’altro, e i gruppi invisibili, per usare la frase di F. Amiel, rimangono occulti, sepolti, perché nessun’altra potenza trascendente, quella che io chiamerò grafica, concorre ad entrambi. Dirò alla fine, cercando di essere meglio inteso, che in questa poesia manca il mistero» («Mattino», 31 dicembre 1892).

Si noti in questi giudizi l’influenza patente dell’estetica simbolista, male assimilata, ma, a parte ciò e l’infelicità di espressioni come «plastico», si deve tener conto del fatto che un contemporaneo esperto riconosceva il limite del decadentismo pascoliano proprio nella mancanza del mistero e della pura ricerca musicale.

***

Myricae, per essere cronologicamente il primo libro del poeta, non sono tutto oro né senz’altro la pietra di paragone per gli altri volumi, ma certo è che in esse il Pascoli si mostra piú puro dalle intenzioni, dalle esagerazioni della poetica esplicita, e la sua sensibilità vi è piú diretta, piú propria.

In Myricae le cose sono sentite con una immediatezza che sfiora il realismo e, d’altra parte, con una precisione che fa pensare alla miniatura:

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero,

resta un aratro senza buoi, che pare

dimenticato tra il vapor leggero.

(Lavandare)

E il frammento vale per il tutto, tanto è estranea al poeta una preoccupazione extrartistica che chieda un relativo svolgimento: la sua natura vi è nuda, nella sua concreta limitatezza, che sarà superata sempre con gravi rischi di disfacimento.

Tutto in Myricae è basato non sulla cultura ma su un sentimento, che – prima di degenerare in sentimentalismo – trova in molta parte di esse e in pochi altri momenti la sua misura essenziale.

È il sentimento dell’infanzia, un senso del cuore, che innerva le cose e supera cosí un facile idillismo. Alla base di molte Myricae e di alcuni Canti di Castelvecchio, che, come notò il Cecchi, sono il volume piú direttamente vicino alle Myricae, c’è un sentimento, un’esperienza dell’infanzia, una sofferenza degli anni passati, che corrisponde al delicato gusto delle cose viste fanciullescamente.

La sensibilità e modi del cuore fanno tutt’uno, e ne sgorga un ricordo reale, non una sdolcinatura infantile:

San Lorenzo, io lo so perché tanto...

(X Agosto)

Persino nel Giorno dei morti, che è pure una delle cose peggiori, certi pigli mostrano il valore estremo di un sentimento vissuto, non tutto fuori e cosciente della sua poeticità come nel Pascoli delle ultime cose.

È utile ricordarsi una frase della Ginestra per spiegarsi il valore del dolore dell’infanzia per il Pascoli: «al poeta del dolore mancò nella sua fanciullezza un po’ di dolore» (Miei pensieri cit.): quel sentimento invece in lui ha valorizzato l’infanzia, l’ha fatta l’età sua piú completa e sentita. è su questa esperienza di Myricae e dei Canti di Castelvecchio che si fonda la poetica del Fanciullino, nella sua qualità positiva di gusto del particolare, di meraviglia di fronte alle cose, rannodata al sentimento capitale dell’infanzia.

E già nell’ambito della stessa poetica in atto, questa natura di decadentismo italiano si deforma in stupefazione di fronte alle cose grandi perché possono essere ridotte sul metro di quelle piccole, di fronte alle piccole perché vi si può trovar la dignità di quelle grandi.

***

Abbiamo già notato che il fatto stesso della teorizzazione di motivi costruttivi, di poetica in atto, isola ed esagera i difetti e le qualità del poeta: questi sa qual è il suo modo di esprimersi e, se una forte ispirazione non lo trascina, si limita a restare fedele ai suoi dogmi, si fa scolaro di se stesso.

Cosí l’enunciazione della poetica del Fanciullino, nata sull’esperienza delle prime poesie, esagera il gusto del particolare, lo complica con l’ideale omerizzante e con quello umanitario: di quest’ultimo il Pascoli sa che è inevitabile in ogni vera poesia e lo intrude perciò anche nella sua. Lo stesso avere calcato sul paragone del «fanciullino» e del poeta omerico spinse ancor piú il poeta a fanciulleggiare, a meravigliarsi, a fare da per tutto l’ingenuo. Donde quella sorta di sofisticheria sentimentale, di «sí, ma, forse» che oscilla tra leziosaggine e malgusto.

La poetica teorizzata prevale cosí e si fa, a scapito della libertà della poesia, poetica in atto («piú che una confessione sono veri e propri moniti a me stesso...» dice il Pascoli del Fanciullino), complicata con quegli elementi extrartistici, che essa aveva ammesso solo a posteriori.

Ma d’altra parte, in diretta connessione con il predominio della poetica, è la stessa sensibilità del poeta che maturandosi si impingua e si raffina insieme, sia per adeguarsi alla poetica del piccolo e del meraviglioso, sia per intima necessità. Il motivo del mistero, dell’ignoto vuol diventare piú che una sensazione o un brivido come in Myricae, si allea al motivo umanitario della bontà, diventando uno spauracchio ad uso degli uomini cattivi ed egoisti. Diventa cosí parte di un’oratoria, di un’arte di persuadere al bene, mentre contemporaneamente crescono le sue intenzioni di musicalizzarsi, di sfarsi in suono. La musicalità infatti cresce sempre piú nel Pascoli maturo per quanto piú perde quell’originale gusto delle cose che gli concedeva una musica sottovoce e sicura: a mano a mano la musica si fa piú scivolata, piú esteriore, piú morbosa. Sempre piú il «fanciullino» sproporziona la sua prospettiva preziosa, sempre piú diventa raffinato, bambino senile, che «chiama gli scapaccioni» perché è «consapevole della sua fanciulleria». Non si creda con ciò che per noi tutto quello che viene dopo Myricae, i Canti di Castelvecchio e un po’ dei Primi Poemetti, sia poesia inferiore: ma vogliamo far vedere come in essa si accentui in senso peggiorativo la poetica decadente.

Il risultato di Myricae e di quei componimenti che rientrano nella piú sana evoluzione di quella prima sensibilità è assai piú di un impressionismo frammentario: c’è tutta un’aria, un senso di canto, una realtà poetica, un sentimento concreto – che troppo spesso nel Pascoli maturo si prosaicizza e si regge su espedienti retorici o su finezze morbose.

Già nei Primi Poemetti si avverte una maturazione della poesia di Myricae in un senso piú raffinato: le sproporzioni pascoliane (dovute al fatto che il poeta dilata arbitrariamente un’impressione che andava concretata sul nascere) ed una certa sentimentalità diluita – che è il costante pericolo della poesia pascoliana – si accrescono insieme a tentativi di novità di suggestione di cose profonde, male adeguati alle naturali possibilità pascoliane. La sua sensibilità suggerisce cose, sfumature di cose, ma non i mondi dell’inconoscibile, del misterioso, che restano un limite, un’aspirazione, non una conquista.

Perfino nei Canti di Castelvecchio, nei deteriori, si notò da parte del Cecchi «un certo generale immobilizzarsi delle immagini, piú frammentarie che nelle Myricae, e perciò piú suscettibili di comunicarci un senso di bambinesca dimessità»[8]. Miniatura e diluzione della sofferenza di Myricae. Nei Poemetti la poetica prevale, il fanciullino fa tutt’uno col decadente raffinato, e la sublimità di certe mosse intime, pensose confina con il preziosismo di una semplicità voluta, il senso delle cose con la raffinatezza di particolari e di parole rare. Quello che il Pascoli acquista in spazio, in certa ampiezza di canto, lo perde in concretezza di visione.

In molti dei Primi e in tutti i Nuovi Poemetti, la costruzione, sentita come necessità di ampliamento («Paulo maiora canamus») sciupa il senso delle cose, che resta pur sempre al centro della poesia e della poetica pascoliana, ma come in funzione di una sublimità ingenua, di fanciullesche rivelazioni della verità.

Il mondo georgico è alessandrino quanto il classico in cui si pone il Pascoli, per mancanza di una vera emozione diretta, per la suggestione di un mondo poetico preesistente al poeta, nei Conviviali. Per essere fanciullo segue i suoi istinti peggiori, si affida a mondi prefatti ingenui, convenzionalmente. Cresce la musica esterna e dolciastra in quelle volate perfette ed antipatiche.

Quel dolore ha una lunga ombra che tocca

tutte le cose.

La poetica esaspera la sensibilità a morbosità di diversi generi:

Aveva ognuna, sulle bianche stole,

l’orma di sangue della sua tortura.

Anch’ella, al cuore. Le dicean: «Non duole».

(Suor Virginia)

In fondo, anche in questi componimenti raffinati e tanto lontani da Myricae, il meglio si risolve però non tanto nella suggestione del mistero quanto in un certo senso fresco, attento di cose:

La suora si svestí, cosí leggiera,

ch’udí per terra il picchio d’uno spillo.

Crea piú atmosfera questa sensazione che tutta Vertigine, o nella stessa Suor Virginia i presentimenti dell’ignoto, o in Digitale purpurea il brivido finale:

con un suo lungo brivido... si muore!

In quest’ultima poesia si può misurare appieno il massimo del decadentismo pascoliano e vedere come l’opera di una poetica programmatica avesse ormai guastato la primitiva sensibilità, pur senza sostituirla con una nuova energia creatrice. Digitale purpurea può stare a fianco di qualunque pezzo del Poema paradisiaco: pare quasi che sfiori la stessa tecnica (parentesi, avverbi lunghi, languidi, aggettivi eletti, virginali). Le cose son diventate un pretesto: danno una musica che le sopprime senza saper diventare la musica assoluta e disinteressata dei grandi decadenti. Vale la pena di riportare il brano centrale della poesia per notarvi come le mosse, lo slancio artefatto, l’accentuazione di innocenza e l’accenno morboso, il clima tra virginale e corrotto, lo spazieggiamento eccessivo siano gli stessi che nel Poema paradisiaco. È segno di un’atmosfera comune.

Vedono. Sorge nell’azzurro intenso...

[…]

Vedono; e si profuma il loro pensiero

d’odor di rose e di viole a ciocche,

di sentor d’innocenza e di mistero.

E negli orecchi ronzano, alle bocche

salgono melodie dimenticate,

là, da tastiere appena appena tocche...

Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate

ospite caro? Onde piú rosse e liete

tornaste alle sonanti camerate

oggi: ed oggi, piú alto, Ave, ripete,

Ave Maria, la vostra voce in coro;

e poi d’un tratto (perché mai?) piangete...

Piangono, un poco, nel tramonto d’oro

senza perché.

Nei Poemi conviviali la poetica programmatica pare aver trovato il combaciamento perfetto con la poetica in atto, mediante l’artificioso paesaggio omerico e primitivo: ma questo è proprio il segno piú chiaro del prevalere nel Pascoli delle tendenze alessandrine e della intellettualistica interpretazione della poeticità d’un mondo storico.

A volte, in Gog e Magog, ad esempio, il Pascoli giunge a valori fonici nuovissimi, ma in generale sono versi che sfiorano, non danno presa: qualcosa di decadente, formato su una retorica di traduttore omerico:

Pallida Psiche, prendi tra le labbra

che sembrano due petali appassiti

di morta rosa, un obolo, e leggiera

tienlo, cosí, che te lo prenda il vecchio

né tu lo senta; e chiudi gli occhi e dormi.

Il canto trascina tutto; è un bearsi vizioso, uno snaturamento della sensibilità piú pura, poiché l’appoggio è ancora, benché falsato, sulle cose:

Ché l’orecchiuto tripode di bronzo

gravava in prima al buon Ascreo le spalle:

e prima l’una e l’altra poi, ché grave

era, di bronzo, e poi l’avea, per l’anse,

sospeso al ramo, ch’era suo, d’alloro.

Né portano qualcosa di piú Odi e Inni, che rappresentano con i Poemi del risorgimento e le Canzoni di Re Enzio la peggiore applicazione della poetica pascoliana, nei suoi motivi extrartistici della bontà, dell’umanitarismo, che inficiano ogni ricerca di mistero e di posizione saldamente pessimistica.

Vacuità di ideologismi e ricerca del fanciullesco coincidono in una brutta retorica. Il fanciullino fa qui le sue massime prove:

S’inseguono al buio con ali

di mosca, i lor aliti uguali.

Uguali, uguali, passano tornano

con ronzio lieve, dentro le tenebre

cercandosi: e l’anima ancora,

si cercano, sino all’aurora,

per le ignorate lunghe viottole

del sonno; e al fine si ricongiungono;

e scoppia sul fare del giorno

l’allegro vocio del ritorno.

(Il cane notturno)

Il Pascoli scambia talmente il fanciullo con il poeta, che il volume Odi e Inni è dedicato ai giovanetti e alle fanciulle. Infatti «quali altri seguirebbero con l’agevole docilità che la poesia richiede, il poeta, sí quando narra la comunione che passa per il viotterello, sí quando descrive Achille e il suo cavallo che si parlan negli occhi?».

Illuminazioni non mancano negli ultimi volumi, che andrebbero studiati con un’attenzione maggiore della solita, ma i risultati di essi, ai nostri fini, mostrano solamente che il decadentismo pascoliano va perdendo in finezza ed esteriorizza sempre piú la sua poetica. Poetica di un decadentismo italiano, incentrato in un senso immediato delle cose, scarsamente mistico, malgrado le piú comuni apparenze.

Per eliminare ancor piú l’opinione riguardante un misticismo che rannoderebbe il Pascoli ai decadenti d’oltralpe, c’è utile il confronto fra un componimento del Pascoli, il Focolare, e l’opera del Maeterlinck. Nel Focolare è innegabile l’intenzione del mistero e della bontà come conseguenza del mistero e del dolore.

Vanno. Via via l’immensa ombra li beve...

[…]

E chi gira per terra l’occhio vano,

e chi lo volge al dubbio d’una voce,

e chi l’inalza verso il ciel lontano,

e chi piange, e chi va muto e feroce...

[…]

Un lampo svela ad or ad or la gente

mesta, seduta, con le braccia in croce,

al focolare in cui non è niente.

Qui è chiara l’insufficienza pascoliana a riempire le cose di mistero: è un mistero da bimbi, un baubau, non un mistero imposto con formidabile misticismo, come in Poe.

Si pensi ora ad Aveugles, Intruse, l’Intérieur, del poeta belga. L’ambiente è simile: un focolare, intorno i poveri mortali: mentre all’intorno mormora la morte. Ma tutt’altro è lo spirito. Maeterlinck vuol creare, con tocchi che attingono il particolare ma non vi si fermano, un’atmosfera di presentimento, un incubo che chiede la cessazione nel terrore dichiarato. Il Pascoli invece, o insiste inopportunamente sul particolare, secondo la sua natura, o lo sfugge ed astrae in genericità. Non c’è nel Pascoli quella sofferenza del mistero che è basilare nei decadenti europei.

È perciò che bisogna andare cauti nei raffronti e nei facili inquadramenti. Mentre essenziale è vedere la poetica pascoliana nel decadentismo nostro, nel clima estetizzante fine di secolo: decadentismo tendenzialmente europeo e inevitabilmente affine agli altri decadentismi, ma non ancora conscio dei fondamenti teorici della rivoluzione poetica operata in Europa dopo il romanticismo.


1 Domenico Petrini, La Poesia di G. Pascoli. I: Le «Humiles Myricae» e la Storia grande dei secoli, «Civiltà Moderna», 1929, 1, pp. 594-623; 1930, pp. 51-79; 500-516 [ora in Dal barocco al decadentismo cit., II].

2 È caratteristico per il clima di quel periodo come Pascoli e Carducci siano stati, per i borghesi d’allora, i vessilli di due opposte tendenze psicologiche: violento, eroico l’uno, umile, delicato l’altro.

3 Dopo il libro del Galletti, l’argomento delle influenze pare interamente risolto. Ed è invece evidente che il critico ha fatto sciupio inutile delle sue conoscenze di letterature straniere (né piú né meno di quanto è avvenuto nel suo Novecento, Vallardi, Milano, 1935) e, se ha giovato a imporre l’inserzione del Pascoli entro l’ambito della nuova poesia, ha esagerato nel voler ritrovare minutamente in lui i caratteri del romanticismo e del decadentismo senza distinzione, ha esagerato in sfoggio di nomi e citazioni. Bisognava avere una chiara idea di romanticismo e decadentismo per non citare sempre allo stesso proposito Hugo e Maeterlinck, Shelley e Verlaine, e per non arrivare a questi assurdi: «Il tempo, che sarà forse galantuomo ma coltiva anche l’ironia secondo la formula romantica, s’è divertito a contraddire tutte le loro ambizioni e i loro oroscopi critici, affidando il compito di realizzare l’ideale estetico degli Schlegel, del Tieck, del Novalis, a due poeti italiani del nostro tempo, voglio dire al D’Annunzio e al Pascoli». A. Galletti, La poesia e l’arte di G. Pascoli, Zanichelli, Bologna, 1924, p. 55 (1ª ed. Roma, 1918) [ora Milano, Nuova Accademia, 1955].

4 Miei pensieri di varia umanità, Muglia, Messina, 1903 pp. 12 e sgg. [ora Prose, I, Pensieri di varia umanità con una premessa di A. Vicinelli, Mondadori, Milano, 1946].

5 Una prova di come la poetica del Pascoli coincida con un’incomprensione degli altri mondi poetici si ha dalla lettura delle sue traduzioni: spersonalizza i tradotti, rendendoli favolosi, fanciulleschi. Cosí se prendiamo qualche brano della Legende des siècles, «Amerighetto», troviamo una strana diminuzione dell’epica hughiana, impiccolita là dove il francese è piú tronfio, un’insistenza su particolari che mancano nell’originale: («l’orifiamma palpitava al vento») e insieme uno spostamento dell’attenzione su punti laterali che il tono profetico hughiano aveva trattati genericamente.

6 Attilio Momigliano, Impressioni di un lettore contemporaneo, Mondadori, Milano, 1928, p. 41.

7 Renato Serra, G.P. in Scritti critici, Casa editrice italiana, Firenze, 1911, p. 15 [ora in Scritti cit., I].

8 Emilio Cecchi, La poesia di G. Pascoli, Ricciardi, Napoli, 1912.